Quella che oggi si chiama via Branca, in onore di Giovanni Branca, uno dei maggiori personaggi di Sant’Angelo, un tempo era denominata l’impietrata ed era l’accesso al castello. Fatta la salita, si percepiva forse un po’ più maestosa la porta rigorosamente chiusa con intorno il  fossato e le mura del castello. 

La casa dell’ingegnere e architetto del 1500 Giovanni Branca era probabilmente poco distante ma  oggi non vi è più traccia. I santangiolesi hanno dedicato a lui la strada dove visse, il rinnovato cinema teatro e hanno fatto realizzare  un monumento (tappa 09), a ricordare la fama che lo ha portato a lavorare per la santa casa di Loreto e a pubblicare il libro Le machine(1609) in cui ha ipotizzato l’utilizzo del vapore.

La via è dunque molto antica. In fondo, vicino alla attuale villa Carelli, l’area era chiamata “ospedaletto” perché c’era una casupola (nel catasto del 1506 è indicata come “casa cum hospitale”) di un certo Gualterius Alexandri Gualteri che fungeva da ospedale ed aveva due letti; venne abbattuta nella seconda metà dell’800. Più in giù, nella zona chiamata Trebbio (perché la strada si divide in tre direzioni) dove oggi c’è il frantoio c’era la chiesa della beata Vergine del Carmine, dove sono state trafugate reliquie in argento prima che venisse abbattuta nel 1924. In anni recenti, insieme al frantoio c’è stato anche un piccolo spaccio dove si vendevano generi di prima necessità. 

Ancora più in giù nella zona chiamata Serra c’era  inoltre nel 1600 una chiesa davvero curiosa perché intitolata a Sant’Isidoro, protettore degli agricoltori: curiosa perché Sant’Isidoro di Siviglia era stato canonizzato soltanto tre anni prima; a metà degli anni ’40 del ‘900 ne hanno fatto una scuola.

Ma nel corso dei secoli la zona del borgo, cioè quella fuori dalle mura del castello, ha portato via Branca a diventare la zona più  vivace  e curiosa del paese perché vi vivevano molti artigiani e i suoni degli strumenti, le voci dei personaggi caratteristici e il gran movimento delle persone ne hanno caratterizzato la vita e quindi oggi il ricordo.  Protagonisti sono:  la staciara Marilonga che costruiva setacci per la farina, il Moren, Lorenzo il falegname, Peppino il barbiere e calzolaio, il Calderaio Lorenzen el calderar cioè riparava pentole, coperchi e ogni recipiente in alluminio, rame o ferro con lo stagno; e poi  il calzolaio Gige nel calsolar, il Cantoniere Roberti ed altri. 

Vincens el carador era un umo basso e magro, parlava sempre in italiano corretto e si dava delle arie perché era  stato all’estero: in America; il carador costruiva carri, birocci, ruote, mastelli e botti e casse da morto che ammucchiava fuori dalla sua bottega cerchioni di ferro che ricopriva di carbon fossile e li faceva scaldare e quando erano roventi li estraeva dal carbone con delle lunghe pinze e li batteva intorno alle ruote di legno e infine li immergeva nella pozza di acqua realizzata lì accanto: il fumo,  i suoni dell’acqua che crepitava e le voci che si accavallavano creavano una atmosfera a dir poco  confusa.  

Un altro personaggio era Vincens a cui spesso si facevano scherzi. Uno di quelli più eclatanti è stato quando durante le prove della banda musicale è stata spenta la luce e qualcuno gli ha strappato il cappello nuovo dal capo e lo ha gettato a terra così che è finito sotto i piedi dei presenti. Quando la luce tornò con apparente calma Vincens prese una porta, la scardinò e la gettò contro i presenti.

Via Branca non ha più botteghe ma nel cuore degli abitanti è ancora molto viva l’emozione di vivere in una strada antica e densa di ricordi. 


Di seguito il racconto di una giornata tipica di via Branca preparato da Cesare Antonini per un gruppo di alunni.

“Vi racconto cosa succedeva in un giorno, dall’alba al tramonto, a Sant’Angelo e in particolare in Via Branca prima dell’ultima guerra. Via Branca era così denominata, perché in fondo alla via era nato Giovanni Branca. C’era la neve: il primo che si alzava al mattino era Fattori che andava ad una fiera a vendere lupini, “brustulen”, le sementine, carrube essiccate, noccioline. Andava con la cavalla ed il calesse. Mi ero alzato anch’io presto, per andare a vedere come era ridotto il capannone del falegname “Giuli”, perché la notte prima era caduto tutto il tetto per il peso della neve. 

Si era alzato anche mio padre ed era sul tetto che spalava la neve, perché anche la nostra casa era pericolante era uscita anche la Marilonga; una signora molto alta che faceva di mestiere la “staciara”, cioè fabbricava tutti i tipi di setaccio. Questi servivano per setacciare la farina, che era ancora con la crusca. E con la farina si faceva anche il pane, che poi veniva cotto dal fornaio. La marilonga era incerta se andare alla fiera, per tutta quella neve e stava parlando con il Moren di questo; il Moren era un uomo un po' basso, ma grande lavoratore. 

Erano uscite anche diverse donne che volevano andare alla fontana con l’orcio per prendere l’acqua, perché non c’era ancora l’acqua in casa. Ma si scivolava ed allora qualcuna di esse era andata a prendere della cenere dal camino per gettarla sullo stradino che gli uomini stavano facendo in mezzo alla neve. Lorenzo il falegname, Peppino il barbiere e calzolaio, Lorenzen il calderaio, Gigen il calzolaio, Vincenz il carradore, stavano tirando giù gli scuri dalla porta delle loro botteghe.

 Roberti il cantoniere era già partito con la “lupa” per sgomberare le strade dalla neve. La lupa era una specie di slittone con la punta a triangolo che veniva trainata dai buoi. Vincenzo era disperato perché era il giorno che aveva stabilito per mettere i cerchioni sulle ruote dei carri e non arriva nessuno per aiutarlo, perché tutti spalavano la neve. Ma verso le due del pomeriggio arrivarono quelli che dovevano aiutarlo. 

Spalarono bene la neve davanti alla bottega e anche di fianco, dove avevano preparato una bella buca per mettere l’acqua. Davanti alla bottega, sulla via avevano messo molti cerchioni di carro, uno sopra l’altro e li avevano quasi sepolti con molto carbone, che poi venne acceso pian piano, il carbone divenne rosso infuocato ed anche i cerchioni erano rossi infuocati. Così i cerchioni si erano allargati ed erano pronti per essere messi sulle ruote dei carri, ammucchiate da una parte. 

Allora si sentivano le urla di Vincenzo che dava gli ordini agli altri uomini, tre uomini con in mano delle lunghe pinze prendevano un cerchione alla volta e cercavano di metterlo sulla propria ruota, mentre Vincenzo con un martello adattava il cerchio al legno. Poi in grand fretta alcuni prendevano la ruota e la facevano girare dentro l’acqua che era nella buca preparata prima. 

Tra il fumo del legno delle ruote, lo strepitio e il vociare di chi correva di qua e di là, lo sfrigolare del cerchio incandescente a contatto dell’acqua, si era creata una gran confusione, per la disperazione di Vincenzo. Un massacro se scopriva chi era stato. Comunque alla fine il lavoro era andato bene ed anche Vincenzo si era rabbonito e stava ringraziando dicendo che aveva tutti i piedi bagnati ed andava a mettere le pantofole nuove. Dopo un po' che era entrato in bottega, uscì di nuovo fuori tenendo in mano le pantofole che non avevano più la punta. “Qualcuno mi ha tagliato la punta delle pantofole nuove con l’accetta, sul ciocco davanti alla bottega” e prometteva un massacro se scopriva chi era stato. 

Intanto si stava facendo buio, mia madre mi chiamava, mentre Fattori ritornava ubriaco dalla fiera e la cavalla faceva manovra da sola ed entrava direttamente nella stalla.”